La Camera chiusa ( Racconto)

http://ts1.mm.bing.net/images/thumbnail.aspx?q=5049838565786672&id=b1e43dc33340abfd2a3083ec91a80ef3Non avevo mai provato tanto profondamente un sentimento di ostilità verso alcune case e alcune camere di provincia, la loro aria funerea e chiusa, come quella triste e piovosa mattinata di ottobre quando la porta della grande stanza, dove il garzone di fattoria aveva poggiato la mia valigia, si chiuse da sola, quasi silenziosamente.

Cos’ ero andato a fare in quell’autunno malato in un padiglione sperduto tra i boschi, io che sono il più scadente cacciatore del mondo, la cui naturale indolenza procede di pari passo con un orrore quasi fisico delle armi da fuoco; quale idea balorda mi aveva spinto a seguire qui le battute nella tenuta del marchese di Hauthère e lasciare Parigi, il boulevard e il giornale per seppellirmi vivo in questa tetra fustaia alla vigilia di Cléopâtre e del grande ritorno sulla scena di Réjane nell’opera di Meilhac?

A costo di sembrare matto, sono convinto che nel giungere quasi involontariamente in quella foresta malandata e così stranamente solitaria, ero lo strumento di una volontà sconosciuta, più potente della mia e che giocavo in quel luogo, inconsapevolmente, un ruolo in un dramma dell’Aldilà!

Chi poteva avere abitato, un tempo, quel vecchio padiglione Luigi XIII, dalla grande copertura di ardesie, ornata di lucernai, e così tristemente isolato sulla riva di quel lago pieno di foglie morte, nella parte più profonda di quella grande foresta?

Apparteneva da secoli alla famiglia Hauthère e il padre dell’attuale marchese l’aveva trasformato nella casa del guardiano; nel periodo della caccia, vi si facevano alloggiare gli invitati che non avevano potuto trovare posto al castello.

Era stato il mio caso: sin dal mio arrivo in stazione, una carretta da fattoria aveva accolto me, la mia valigia e i miei inevitabili effetti personali, e mi aveva condotto per le ceppaie umide, sballottato dagli scossoni della carreggiata, nel tetro crocevia, mezza prateria, mezza radura, in cui sorgeva il padiglione.

La casa del guardiano dei marchesi di Hauthère, con la sua aria strana di miseria e di mistero, in riva a quell’acqua morta, in mezzo a quel prato di fieno e di erbacce che marcivano sotto la pioggia, e le alte banderuole del tetto che gridavano al vento d’ottobre nel silenzio pesante, il silenzio complice delle fustaie assopite come ovattate di bruma, senza eco e senza voce.

Non appena fui entrato nell’alto vestibolo, piastrellato in bianco e nero, la sensazione che stavo penetrando in un dramma sconosciuto si accentuò: la camera che mi avevano assegnato era situata al primo piano e due grandi finestre, drappeggiate con lunghe tende di antica seta stinta, la rendevano vasta e chiara in mezzo alla tristezza di quel cielo carico di pioggia e di quella foresta cupa; e tuttavia, istintivamente, varcando la soglia, avevo camminato più silenziosamente, come se stessi per entrare nella stanza di un malato; vi aleggiava ancora un odore di etere rancido e ovunque, nel lampasso sbiadito delle tende di un tempo, sulle poltrone di un lusso antiquato e freddo, sul baldacchino del letto e sul marmo lucido di una vecchia mensola, la polvere, neve nera degli anni trascorsi, sembrava esser là da molti mesi.

Strana camera: sembrava conservasse un segreto Qualcosa di molto triste, di cui era stanca D’aver visto il mistero in fuga nello specchio…

Questi versi raffinati di Rodenbach mi sono ritornati in mente in un secondo momento a proposito di quella stanza effettivamente strana e che certamente aveva, anch’essa, un segreto, un segreto e un dispiacere sepolti in un’antica malinconia, solitudine e silenzio; quel gran silenzio ostile che disturbava adesso il mio invito in quei boschi. Impressione di breve durata, del resto: al castello mi attendevano per la colazione!

Come mai, dopo una giornata trascorsa a setacciare il bosco e un pasto ai cani di diciassette magnifici caprioli, lo spirito rallegrato dal lieto diversivo di una cena di ventidue portate nel salone di caccia di Hauthère, il sangue ringagliardito dai vini pregiati di una cantina rinomata e il pensiero lontano cento leghe dalle angosciose impressioni del mattino, mi risvegliai a mezzanotte nella mia stanza della casa del guardiano, con la nuca madida di sudore e il cuore stretto dal più indicibile malessere ? Raggelato da un brivido lungo la schiena, mi drizzai a sedere: avevano dimenticato di chiudere le tende delle due finestre ai piedi del letto e, nella stanza ingigantita dal silenzio, il chiarore della luna, entrato dai vetri, cadeva mollemente sul pavimento; nel cielo mosso come il mare, la battaglia delle nuvole cacciate dal vento dell’ovest e, contro i vetri, il tamburellio della pioggia autunnale, della monotona pioggia … D’improvviso, nella camera vicina si levò un vecchio motivo di gavotta; un’aria di clavicembalo così dolente e tenue da sembrare risvegliato da mani invisibili; qualcuno era là, nella stanza affianco, dietro il tramezzo, ne ero sicuro, e ora, nel silenzio e nella notte della casa deserta, la musica inizialmente titubante, si librava in ritmi sfumati e precisi, musica di un tempo, riesumata lentamente, arietta o musica da ballo, dalle grazie leziose e fievoli, antico motivo imbellettato dell’altro secolo.

E che si crederebbe aver imparato dalle labbra dei ritratti

Ma a poco mi servivano, quella notte, le reminiscenze dei poeti! Con terrore crescente, ascoltavo, drizzato sui due pugni contratti sul cuscino, e il sudore lungo la schiena, con l’angoscia atroce che qualcuno stesse per entrare, qualche essere ignoto, che si aggirava lì vicino e le cui mani d’ombra indugiavano, in quel momento, su di un clavicembalo dimenticato nella stanza accanto; e prossimo a venir meno, sentivo il cuore ballare nel petto e i miei occhi spalancati per la paura divenire sonnambuli, quando un grande respiro sfiorò il mio volto e, attraverso la seta delle tende del letto stranamente gualcite, un lamento, una voce dell’animo pianse tra i miei capelli di colpo drizzati:

«Portatemi via! Portatemi via!»

La voce pronunciò la frase due volte: folle di terrore, ero balzato nudo in mezzo alla stanza; allora, sentii, oh! molto distintamente, il rumore di passi in fuga sul pavimento, lo sbattere di una porta che si richiude, lo stridio di una chiave che gira nella serratura, e fu tutto; il clavicembalo aveva smesso di suonare e nella mia stanza rischiarata dalla luna, le tende della finestra di un rosa lucido, cadevano dritte, senza una piega… Fuori, la pioggia era cessata e, nel cielo notturno di un grigio latteo e pallido, tre grandi faggi cresciuti nei pressi della casa del guardiano agitavano le loro cime rumorose nel vento fresco della notte.

Avevo recuperato il mio sangue freddo; con la rivoltella in pugno andai diritto alla porta di comunicazione con la camera vicina; tentai invano di aprirla; era chiusa a doppia mandata e resistette ad ogni sforzo; allora andai a quella del corridoio; la chiave che avevo messo io stesso dall’interno non era più nella serratura e cercai allora di aprirla, ma invano: ero bloccato, la camera era chiusa.

Convulsamente, accesi una candela, indossai i pantaloni, una giacca, misi le pantofole e, avendo chiuso le due porte, una con un comò posto di traverso, l’altra con una grande poltrona arabescata di rosa e verde pallido, mi sistemai su un’altra poltrona all’altezza della spalliera del mio letto e, con i piedi avvolti in una coperta, aprii l’ultimo libro di Anatole France, fermamente deciso a vigilare fino all’alba… e mi risvegliai alle dieci del mattino, svestito e coricato nel mio letto; in piedi al mio capezzale, il garzone di fattoria, destinato come cameriere alla mia persona, in quella strana casa del guardiano attendeva, rispettosamente quieto, i miei ordini.

- «Ma che ore sono?» gridai appena sveglio.

- «Le dieci e mezza veramente».

- «Le dieci e mezza! Allora gli altri cacciano!»

- «Oh! dalle sette, il signore può sentire i colpi di fucile da qui!»

- «Come! E voi mi avete lasciato dormire?»

- «Oh! Il signore riposava così bene, il signore aveva l’aria così affaticata e così felice di dormire, era così pallido, in fede mia, che non ho osato svegliare il signore, e l’ho lasciato dormire. Ecco il cioccolato del signore».

E con un gesto maldestro, il ragazzo mi indicava il vassoio appoggiato sul mio comodino. Evidentemente, avevo sognato; tuttavia, un dubbio restava e mentre finivo la mia toletta, con il ragazzo che andava e veniva nella mia camera:

- «E la camera accanto?» cercai di dire casualmente, e mi fermai, sgomentato io stesso della brusca alterazione della mia voce.

- «La camera accanto!» farfugliava il ragazzo.

- «Sì, la camera accanto, qualcuno ci dorme, ci ha dormito questa notte?»

- «La camera accanto, oh! certo che no signore, nessuno ci dorme più; le porte sono murate. Oh! no, nessuno ci dorme più, nella camera della Signora marchesa».

- «La camera della Signora marchesa!»

- «Si è là che è defunta la madre del Signor marchese; oh! è successo tempo fa; oh ! sì, sarà una trentina d’anni!»

Fu tutto quello che potei sapere dal ragazzo. Lo congedai e, una volta solo, cercai di avvicinare ben bene l’occhio ai buchi delle serrature; fatica inutile, le persiane della camera vicina dovevano essere chiuse o le porte arredate con della tappezzeria: impossibile distinguere qualcosa, la mia curiosità si scontrò con una muta oscurità di tomba. La notte seguente, dormii al castello: a colazione, dove trovai il modo di arrivare in ritardo, il marchese, dopo essersi informato su come avevo trascorso la notte in quel padiglione isolato della foresta, si scusò di esser stato costretto a darmi un così cattivo alloggio.

- «Ma», aggiunse con un sorriso equivoco, «uno dei miei ospiti è partito questa mattina, la sua camera è libera, e Francesco, porterà qui il vostro bagaglio nel pomeriggio: dormirete al castello “questa notte”».

E questo fu tutto … ero stato probabilmente vittima di un’allucinazione, il mio temperamento eccitabile, impressionato dall’aspetto di miseria e di tetro abbandono di quel padiglione solitario, aveva lavorato durante il sonno, e il mio incubo non era stato, in fin dei conti, che ciò che sono tutti gli incubi, il prolungamento triste, oltre lo stato di veglia, di una sensazione di angoscia.

Eppure, da quando so che la marchesa Simonne-Henriette d’Hauthère, la madre del mio ospite, è morta a vent’otto anni, quasi folle, o perlomeno la famiglia lo ha sostenuto, alcuni hanno detto sequestrata per colpa della gelosia di un marito di altri tempi in quell’isolato e così stranamente cupo padiglione, mi sono chiesto se non fossi entrato mio malgrado (sono i casi della vita) in qualche terribile mistero, se non fossi stato immischiato, una notte della mia vita, in qualche dramma dell’Aldilà!

E poi … nel tumulto dei miei ricordi di ieri, ma che mi sembrano già lontani, oh! sì già lontani… avevo dimenticato di dire… La mattina della mia terribile notte visionaria, aggirandomi per la camera, sopra il marmo polveroso di una delle mensole che cosa avevo trovato?... Una rosa, una pallida rosa bianca, completamente bagnata dalla pioggia, con i petali umidi, dal lungo stelo, flessuoso, priva di spine, adagiata nella polvere e, nella polvere, l’impronta di cinque dita … Quel fiore e quell’impronta, da chi erano stati messi?

Leggi il racconto in lingua originale

Translated by: Marilena Genovese

La chambre close - Nuit de veille by Jean Lorraine
Sonyeuse, 1891 - Sensations et souvenirs, 1895

©inTRAlinea & Marilena Genovese (2011).
"La Camera chiusa - Notte di veglia (Due racconti)". Translation from the work of Jean Lorraine.
This translation can be freely reproduced under Creative Commons License.
Permalink: http://www.intralinea.org/translations/item/1026

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